In conseguenza della diffusione del COVID-19/Coronavirus sul territorio italiano, il Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 4 Marzo 2020 ha sospeso le attività didattiche per le scuole di tutta Italia: questo provvedimento, che non ha precedenti nel nostro paese, ha spinto tantissime scuole, insegnanti e genitori ad attivarsi per cercare strumenti di apprendimento a distanza come videoconferenze, piattaforme di e-learning e strumenti di comunicazione e collaborazione.
Come spesso accade nelle situazioni emergenziali, la necessità impellente di pervenire a una soluzione in tempi rapidi può portare ad effettuare valutazioni incomplete e, di conseguenza, all'adozione frettolosa di strumenti informatici inadeguati. Si tratta di errori che è molto facile commettere per una serie di motivi, tra cui:
- La mancanza di consapevolezza, da parte dell'insegnante, dell'esistenza di strumenti di profilazione (potenzialmente invasivi) connessi all'adozione di molti servizi presentati come "gratuiti".
- La difficoltà di effettuare una corretta valutazione dei rischi connessi all'adozione dei suddetti servizi in termini di privacy e protezione dei dati.
- La pressione sociale esercitata dalle Big Tech (e dai loro adopters) per favorire l'utilizzo dei loro servizi, mediante una narrazione che enfatizza la semplicità d'uso, l'elevata accessibilità e la diffusione capillare di prodotti presentati come gratuiti e veicolati mediante una intensa e pervasiva attività di marketing.
Contrariamente a quello che si è portati a credere, le multinazionali del Big Tech (Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft, dalle cui iniziali trae origine l'acronimo GAFAM) non offrono affatto servizi gratuiti: al contrario, lo scopo di quegli strumenti è quello di estendere e rafforzare la loro presa sulla società attraverso la diffusione sempre più capillare dei molteplici dispositivi e Software as a Service da loro prodotti e commercializzati. Un monopolio de facto che, se non opportunamente contrastato, rischia di intensificare i processi di privatizzazione della sfera pubblica (istruzione e sanità in primis), specialmente in conseguenza di avvenimenti eccezionali come quello che stiamo vivendo e della conseguente propensione, da parte delle istituzioni e non solo, a favorire l'adozione di misure emergenziali.
L'emergenza COVID-19 è un perfetto esempio di questa dinamica: Google ha già presentato un progetto, rivolto a numerosi stati americani ma potenzialmente estendibile all'intero pianeta, in cui mette "gratuitamente" a disposizione una serie di strumenti - tra cui la propria piattaforma G Suite for Education - alle scuole che abbiano necessità di far partire progetti di apprendimento a distanza. Ovviamente, aderire a questa proposta significa di fatto costringere tutti gli insegnanti (e i rispettivi alunni) alla creazione di un account Google personale, con tutto ciò che ne consegue in termini di autorizzazione al trattamento dei propri dati. Si tratta dunque di una privatizzazione "soft", indiretta e dunque difficile da percepire, ulteriormente favorita dal fatto che molti dei fruitori di questi servizi sono già utenti fidelizzati di questi servizi grazie al loro smartphone Android, a un indirizzo di posta elettronica GMail, a un canale YouTube, e così via.
Come si può facilmente comprendere, è fondamentale che la scuola - in primo luogo quella pubblica, ma il medesimo discorso può essere fatto anche per qualsivoglia istituto privato che abbia a cuore la privacy di studenti e collaboratori - opponga a questo processo una valida alternativa, possibilmente basata su un approccio socio-culturale più aperto e inclusivo come quello adottato dai movimenti legati al software libero e open source.
Partendo da queste importanti premesse ho deciso di scrivere una serie di articoli con l'intento di fornire qualche consiglio ai docenti che, in attesa che il MIUR fornisca strumenti ad-hoc, sono tentati di "arrendersi" a Microsoft Skype, Google Hangouts e/o altri strumenti prodotti e commercializzati dalle Big Tech.
Nel primo articolo cercherò di sfatare alcuni dei principali luoghi comuni (myths) in tema di privacy e protezione dei dati con cui vengo costantemente a contatto nel corso del mio lavoro di responsabile IT e sicurezza informatica: si tratta di convinzioni molto radicate, specialmente tra i non addetti ai lavori, che - se non opportunamente affrontate - possono favorire l'adozione prematura di strumenti e servizi potenzialmente inadeguati.
Nel secondo articolo, di prossima pubblicazione, parlerò più in dettaglio di Jitsi Meet, uno strumento per videoconferenze open-source che - con alcuni accorgimenti - può essere un'ottima alternativa a Microsoft Skype e Google Hangouts.
Buona lettura!